Pubblico un estratto di questa sentenza con cui la Suprema Corte è tornata ad affrontare l'argomento già illustrato nel post del 29 novembre scorso, concludendo peraltro con la difficoltà di inquadrare la fattispecie nell'ambito dell'art. 913 piuttosto che in quello dell'art. 2051 del codice civile, in particolare in considerazione del fatto che che gli immobili interessati (un edificio ed un terrapieno) erano risalenti nel tempo
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2. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all'art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 913 e 2051 cod. civ. e delle norme in tema di responsabilità extracontrattuale. Rilevano i ricorrenti che la sentenza sarebbe errata nella parte in cui, applicando l'art. 913 cit. anziché l'art. 2051 cit., ha rigettato la loro domanda volta ad ottenere la condanna dei convenuti all'esecuzione di tutte le opere idonee e necessarie all'eliminazione delle infiltrazioni riscontrate nell'immobile di proprietà degli attori. Richiamando le conclusioni del c.t.u., i ricorrenti osservano che non si trattava, nella specie, di scolo di acque tra due fondi confinanti, bensì di «infiltrazioni di acqua tra due manufatti, entrambi, cioè, frutto dell'opera dell'uomo»; da un lato l'edificio dei ricorrenti e dall'altro un terrapieno costruito con materiale di riporto, appoggiato al muro della loro proprietà . Da tanto conseguirebbe che non poteva essere applicato l'art. 913 cod. civ., in presenza di una situazione caratterizzata dall'intervento dell'uomo. 3. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all'art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell'art. 12 delle c.d. preleggi e dei principi generali in tema di ermeneutica. Si osserva che, anche volendo ammettere l'applicabilità dell'art. 913 cod. civ. ai fondi urbani, o meglio ai terreni agricoli situati in ambiente urbano, non potrebbe comunque estendersi la portata di quella norma «sino ad estenderla anche alle acque che scolano tra manufatti ed edifici che, certamente, non possono definirsi fondi». 4. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all'art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell'art. 132, n. 4), cod. proc. civ. e dell'art. 118 delle disposizioni di attuazione del codice di rito civile. Si rileva, sul punto, che la sentenza sarebbe totalmente carente dell'indicazione delle ragioni di fatto e di diritto sulle quali essa ha ritenuto dimostrata la naturalità dello stato dei luoghi. 5. I tre motivi, da trattare insieme in considerazione della stretta connessione che li unisce, sono fondati nei termini che si vanno adesso a specificare. 5.1. La Corte d'appello ha supportato la propria motivazione con due corrette argomentazioni giuridiche: 1) l'art. 913 cod. civ. si applica in relazione allo scolo di acque che si determina in assenza dell'opera dell'uomo; 2) tale norma, chiaramente dettata per una realtà rurale, si applica tuttavia anche ai fondi urbani. Si tratta, appunto, di due affermazioni esatte che trovano riscontro nella pacifica giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale l'art. 913 cod. civ., riconoscendo l'obbligo del proprietario del fondo inferiore di ricevere le acque che «dal fondo più elevato scolano naturalmente», evidentemente presuppone l'esclusione di una qualsiasi attività umana che sia idonea ad alterare lo stato dei luoghi (v. le risalenti sentenze 28 settembre 1970, n. 1732, e 10 febbraio 1979, n. 923, nonché, più di recente, le sentenze 18 aprile 2005, n. 8067, 28 marzo 2007, n. 7576, e 15 giugno 2011, n. 13097). È evidente, però, che il problema che i motivi di ricorso in esame pongono a questa Corte è quello di stabilire i confini tra l'art. 913 e l'art. 2051 cod. civ., che impone a ciascuno di rispondere dei danni causati dalle cose che ha in custodia, obbligo che grava anche a carico del proprietario di un immobile. A fronte di tale questione, la sentenza impugnata non mette questa Corte in condizioni di comprendere a pieno quale sia realmente la fattispecie in esame; la motivazione, infatti, come si è detto, si limita in sostanza a dare atto che le due c.t.u. espletate in primo grado non avevano evidenziato «alcuna alterazione della configurazione naturale del terreno tale da determinare un peggioramento del deflusso delle acque imputabile ai proprietari dei fondi superiori», aggiungendo che le opere di rifacimento della rete fognaria non avevano comportato un incremento dello scolo naturale. In questo modo, però, manca nella motivazione una descrizione dei luoghi che sia tale da consentire di inquadrare la fattispecie nell'ipotesi di cui all'art. 913 cit. ovvero in quella dell'art. 2051 del codice civile. In particolare, trattandosi di un immobile assai risalente nel tempo, sito all'interno del centro storico della città di G, in relazione al quale non risulta ci siano state contestazioni in passato - il che potrebbe, in astratto, far pensare che vi sia stata una qualche alterazione dello stato dei luoghi - la sentenza non illustra se il terrapieno che, a quanto è dato capire, è causa delle infiltrazioni sia stato creato o comunque modificato dall'opera dell'uomo. Manca nella sentenza in esame ogni riferimento che chiarisca se si tratti realmente di scolo di acque dall'uno all'altro fondo ovvero di infiltrazioni di acqua conseguenti a lavori eseguiti o alla semplice incuria umana. Non è dato comprendere, dal testo della sentenza, se tale mancanza di chiarezza sia da imputare all'operato dei consulenti, alla scarsa chiarezza dei quesiti loro posti ovvero ad una lacuna della motivazione. È certo, però, che la ricostruzione dei fatti operata dalla Corte d'appello non consente di individuare con chiarezza la fattispecie e, di conseguenza, il regime giuridico applicabile.
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